L’irruzione dello smart working nella Pubblica amministrazione durante l’emergenza Covid non è semplicemente un nuovo modo di eseguire il lavoro. Nel passaggio dall’attività in presenza all’attività da remoto muta radicalmente un intero sistema di relazioni, a iniziare da quello che costituisce l’essenza della comunità del lavoro: il ritrovarsi insieme in un determinato spazio fisico e per un determinato tempo.
Per questo e altri motivi mutano anche i termini della contrattazione. La quale non può essere ancorata alle vecchie logiche e tuttavia non può esserne del tutto disancorata. Da qui l’aumento di difficoltà nell’assicurare il corretto funzionamento delle relazioni sindacali nei luoghi di lavoro, sia da parte del sindacato che da parte datoriale.
La Uil e la Uilpa sono state le prime organizzazioni sindacali ad avvertire il mondo del lavoro e l’opinione pubblica che se prolungato nel tempo lo smart working di massa, deciso d’autorità dal legislatore per far fronte all’emergenza sanitaria, stravolge l’organizzazione del lavoro. Perciò va ricondotto sotto l’egida della contrattazione collettiva. Ma per il settore pubblico non ci sembra di aver trovato uditori attenti. Tanto è che in un anno e mezzo dall’esplosione della pandemia siamo passati da: “restate tutti a casa a tornate tutti nelle sedi di lavoro”.
Questa giravolta si spiega così: da un anno e mezzo si è parlato dello smart working in termini superficiali. Due esempi per tutti: 1) il lavoro da remoto a cui tanti lavoratori pubblici sono stati obbligati per contenere il diffondersi del virus non è stato smart working, ma una forma di lavoro a domicilio (home working); 2) durante la pandemia l’idea che politici e giornalisti hanno dato ai cittadini è che tutto il pubblico impiego fosse in smart working; invece, più della metà dei dipendenti pubblici ha costantemente lavorato in presenza.
La massiccia campagna di vaccinazione sta permettendo di ipotizzare un rientro in tempi brevi dei dipendenti nelle sedi di lavoro. Ma sulla base di quale analisi? Mentre scriviamo giunge la notizia che l’emergency working della fase pandemica contrae i consumi di bar, ristoranti, negozi di abbigliamento e così via, incidendo per il 2% sul PIL. Perciò via, tutti in presenza.
Ecco cosa succede quando le “rivoluzioni” seguono la moda del momento. Ed è grave che finora il lavoro agile non sia stato oggetto di una vera contrattazione tra sindacati e datore di lavoro pubblico. Lacuna alla quale porremo rimedio con le regole che stiamo scrivendo nei rinnovi contrattuali 2019-2021, cominciando dal comparto Funzioni Centrali.
L’efficienza dell’organizzazione del lavoro nella p.a. ai tempi del PNRR è troppo importante per lasciarla in balìa della politica. La quale sembra andare per conto proprio senza tenere conto dell’opinione del sindacato. E così come ieri il governo ha imposto (giustamente) l’home working di massa, oggi vorrebbe imporre il rientro in massa. Ma il lavoro a distanza non va imposto o revocato secondo il vento che tira in Parlamento. Va organizzato e governato secondo le reali esigenze delle amministrazioni. Solo in questo modo potremo far sì che un anno e mezzo di emergenza non sia passato invano.